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ARTÍCULOS
DE LA RELACIÓN VÍCTIMA-VERDUGO A LA VICTIMIZACIÓN SECUNDARIA. ¿QUÉ PUEDE HACER CADA PERSONA CONTRA LA VIOLENCIA DE GÉNERO?
FROM THE VICTIM-EXECUTIONER RELATIONSHIP TO SECONDARY VICTIMIZATION. WHAT CAN EACH PERSON DO AGAINST GENDER-BASED VIOLENCE?
Sabina Curti
Università degli Studi di Perugia (SPS/12)
Silvia Fornari
Università degli Studi di Perugia (SPS/07)
Resumen: La relación víctima-verdugo en la violencia de género en Italia.
La investigación sociológica sobre la violencia de género en las últimas décadas ha desarrollado nuevos enfoques para interpretar el fenómeno, sobre la víctima y sobre los procesos de victimización dado el aumento de casos en Italia. La transversalidad del fenómeno se puede rastrear tanto en la forma de mirar la relación víctima-verdugo como en los cambios sociales que esta relación conflictiva también produce desde el punto de vista socioeconómico. Este será el tema de este trabajo.
Palabras claves: Violencia de género; Relación víctima-verdugo; Victimización secundaria.
Abstract: The victim-executioner relationship in gender-based violence in Italy.
Sociological research on gender-based violence in recent decades has developed new approaches to reading the phenomenon, on the victim and on victimization processes given the increase in cases in Italy. The transversality of the phenomenon is traceable both in the way of looking at the victim-executioner relationship and in the social changes that this conflictual relationship also produces from the socio-economic point of view. This will be covered in this work.
Keys Words: Gender violence; Victim-executioner relationship: Secondary victimization.
Introduzione
La violenza di genere non è un fenomeno che si può affrontare con il “buon senso” o con la “speranza” che qualcosa prima o poi cambi nella società, esso implica prima di tutto una trasformazione di mentalità culturale – che necessita di tempi lunghi e profondi soprattutto nella struttura valoriale di una collettività. Ciò è ancora più vero se riconosciamo il fatto che spesso si continua ad osservare e discutere della violenza di genere come di un evento lontano da noi “come si trattasse di un’entità con una vita propria, con una propria specificità e un proprio linguaggio, mentre in realtà è la nuda rappresentazione della nostra fragilità” (Bellei, 2016: 20).
Ricordiamo brevemente che grazie ai movimenti di emancipazione della donna dagli anni ’70 si è avviato il dibattito sulla disparità di genere, ma è necessario aspettare il 1989 quando “il Comitato della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna chiede agli Stati membri di mettere in atto misure idonee a tutelare le donne contro qualsiasi forma di violenza, nella sfera privata e in quella pubblica, oltre a creare servizi di supporto alle vittime di violenza” (Fornari 2019b: 3). Il passaggio successivo porta alla Dichiarazione delle Nazioni Unite, che nel 1993 riconosce la violenza contro le donne come violazione dei diritti umani, perseguendo 3 obbiettivi principali: prevenire i reati, punire i colpevoli, proteggere le vittime (ONU, 1993). Da questo momento è possibile affermare che non si tratta più di un fenomeno d’interesse per i soli specialisti, ma di una problematica con la quale è necessario iniziare a fare gradualmente i conti. Il nuovo secolo si apre con questo obiettivo che porta nel 2002 l’Organizzazione Mondiale della Sanità a riconoscere le violenze degli uomini sulle donne come un problema di salute pubblica di cui occuparsi a livello internazionale (OMS, 2002). Nel 2011 viene istituita la Convenzione di Istanbul[1], ovvero il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Per la prima volta viene così riconosciuta la violenza di genere come forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione, inserendo tra i soggetti da tutelare anche i bambini e le bambine testimoni della violenza domestica (Buccoliero, Soavi, 2018a; 2018b), chiedendo anche la penalizzazione delle mutilazioni genitali femminili.
Stante l’attenzione degli organi di tutela internazionale e le ratifiche dei diversi paesi, appare chiaro quanto i risultati siano ancora marginali rispetto ai numeri della violenza negli stessi paesi aderenti. Prendendo in considerazione solo la violenza sulle donne in Italia, nella prima indagine condotta dall’Istat nel 2005, sono oltre 14 milioni, le donne che hanno subito una qualche forma di violenza fisica, sessuale o psicologica nel corso della loro vita e che tale violenza è esercitata principalmente dal partner o da una persona della propria famiglia. Solo nel 24,8% dei casi la violenza é stata commessa da uno sconosciuto. Il dato più drammatico riguarda il riconoscimento della violenza da parte della vittima: solo il 18,2%, infatti è consapevole che gli atti subiti rientrino in una qualche forma di reato, il 44% li giudica come “qualcosa di sbagliato” e il 36% come “qualcosa che è accaduto”, cercando di minimizzare o nascondere la realtà dei fatti (Istat, 2007; Istat, 2008).
Dalla stessa indagine emerge come nella fascia d’età 14 – 44 anni la prima causa di morte delle donne sia la violenza subita da un uomo ed ancora, più di un milione di donne continua a subire violenza fisica o sessuale nella relazione di coppia. Se si considera inoltre che questi dati non includono altre forme di violenza, come quella psicologica, economica ecc., e che gran parte dei conflitti rimangono sommersi tra le mura domestiche (da cui deriva l’elevato numero oscuro), il fenomeno assume dimensioni enormi e incalcolabili (Romito, 2011). Infine, è ancora molto complicato tramite le indagini sociologiche valutare anche le conseguenze – soprattutto di quelle a lungo termine (Hirigoyen, 2000: 171-180) – nell’ambito della salute pubblica e della riabilitazione tanto delle vittime quanto dei carnefici, nonché quelle sui figli e sulle famiglie degli uni e degli altri (Rutigliano, Spriano, 2016).
In molti campi sociali e professionali aumenta sempre di più la necessità di individuare veri e propri “strumenti operativi”, non solo di tipo giuridico, per riconoscere e affrontare la violenza di genere nella vita quotidiana. Gli studi sui processi di vittimizzazione primaria, secondaria e terziaria costituiscono i principali mezzi di analisi e di interpretazione sociologica della violenza per “aiutare ad aiutare” le vittime e contrastare il problema. Per quanto estremamente utili sul piano della comprensione del fenomeno, tuttavia, i processi di vittimizzazione – soprattutto quelli della vittimizzazione secondaria – oggi più che mai hanno bisogno di essere tradotti e concretizzati sul piano dell’intervento sociale.
Una ricerca sulla percezione della violenza di genere in Umbria (Fornari, 2019a), finanziata dal Dipartimento di Filosofia, Scienze Umane, Sociali e della Formazione dell’Università di Perugia, ha reso evidente la stretta correlazione che si viene a creare tra il problema della violenza e la capacità, per esempio in questo caso, della popolazione studentesca, di attivarsi per richiedere aiuto o
comunque di ricercare una risposta a partire dall’esistente. In questo senso è scaturito l’interrogativo “che cosa può fare ogni persona contro la violenza di genere?”, che è poi diventato il sottotitolo di questo lavoro e una sorta di studio preliminare per un ulteriore sviluppo del nostro percorso di ricerca. Muovendo dall’analisi della particolare relazione tra vittima e carnefice che si verifica nel caso specifico della violenza di genere, si intende infatti qui porre l’attenzione sul ruolo proattivo che può assumere ogni persona della società soprattutto nella vittimizzazione secondaria. Invece di relegare la relazione distruttiva e conflittuale tra vittima e carnefice al contesto privato, domestico, familiare, rendendola più nascosta di quanto già non lo sia, ogni persona può impegnarsi responsabilmente e attivarsi contro la violenza di genere. Proprio perché la relazione tra vittima e carnefice presenta delle caratteristiche che fanno sentire spesso impotente la società davanti a qualcosa di così “invisibile” e “privato”, c’è bisogno di pensare strumenti formativi e operativi utili e alla portata di tutti per capire che, dal momento in cui la vittima dà voce alla propria sofferenza e si confida con familiari, medici, volontari, amici, insegnanti, operatori delle forze dell’ordine (altre donne e altri uomini), qualcosa si può fare senza necessariamente improvvisarsi esperti psicologi né farsi giustizia da sé – ma sviluppando in ogni persona una sensibilità sociale verso il problema e la capacità di accoglienza alla richiesta di aiuto delle vittime[2].
Dalla conoscenza delle cause del fenomeno a quella degli strumenti sociali
Come è noto, la Convenzione di Istanbul (2011) rappresenta lo strumento giuridico principale e attualmente in vigore per contrastare la violenza di genere attraverso la sensibilizzazione, la prevenzione, l’educazione e la formazione. Nel panorama italiano esiste ormai un’ampia letteratura sul tema, con l’analisi di metodi utili per rispondere alla violenza contro le donne (De Girolamo, Romito, 2014). Sempre in Italia, anche nell’ambito accademico, l’attenzione per il fenomeno è notevolmente aumentata. Sono nate nuove alleanze tra università, tra corsi di laurea e tra questi, le associazioni femminili e le istituzioni del territorio (Calloni, 2018). La maggior parte delle università italiane sono oggi impegnate nella ricerca e nell’analisi del fenomeno della violenza di genere, da molto tempo svolgono formazione specifica per i futuri professionisti nei vari settori del sociale e dell’educazione. E lo stesso può dirsi dell’estremamente importante lavoro di sensibilizzazione portato avanti dalle associazioni italiane delle donne nelle istituzioni scolastiche e verso i cittadini e le cittadine.
Grazie al vasto numero e ai risultati delle ricerche sulla violenza di genere e alle attività di informazione e formazione dell’associazionismo, sappiamo da dove proviene il fenomeno, ne conosciamo le cause, come è possibile fermarlo e perché è così difficile far cambiare i carnefici e tutelare le vittime (Pitino, 2005; Scozzafava, Campagnoli et al., 2017). Abbiamo inoltre accertato che gli strumenti giuridici da soli non sono sufficienti (Curti, 2019): da una parte, la logica della giustizia retributiva ha dimostrato e continua a dimostrare, rispetto al problema della violenza di genere, tutta la sua inefficacia (basti pensare che, per esempio, i reati sessuali sono quelli che presentano il più alto tasso di recidiva; ma anche che molto spesso le donne non prese adeguatamente in carico dalle istituzioni vengono uccise); dall’altra, il modello di giustizia riparativa, che utilizza la mediazione penale, può essere praticato solo in alcune fasi del lungo iter processuale e lo può essere soltanto su richiesta degli stessi soggetti oltre che dopo un rispettivo percorso/trattamento individuale di ricostruzione del self personale.
Le richieste primarie delle vittime riguardano la protezione, la sicurezza per sé e per i propri cari e solo successivamente la condanna del carnefice. Per non diventare vittima due volte è su questi elementi che è oggi necessario intervenire. Il percorso penale purtroppo è poco funzionale e soprattutto poco tutelante nei confronti delle vittime di questo tipo di reati. Le vittime (le donne) che denunciano e non ricevono le risposte sono persone che perdono fiducia nei confronti del sistema, ma che rischiano ancora di più di diventare vittime di un “femminicidio” e di non aver più bisogno di successivi interventi. Riconoscere l’aspetto culturale e sociale della specificità dei reati a cui facciamo riferimento significa lavorare anche per modificare un sistema penale legato ad una logica valoriale di stampo paternalistico e che mostra il ritardo nei confronti della violenza di genere e soprattutto nei confronti dell’emancipazione femminile. La fragilità mostrata dal nostro sistema giuridico è frutto del marcato ritardo culturale e sociale nei confronti della problematica. Ci vorranno almeno altre due generazioni per assistere al superamento di vecchi stereotipi e retaggi culturali sessisti, non solo nei confronti delle donne, ma anche degli uomini.
Accanto agli strumenti giuridici in uso è quindi assolutamente necessario affiancare strategie operative – o strumenti sociali – di prevenzione a più livelli, insieme a nuove prospettive educative, per ridurre il più possibile i casi di violenza di genere nell’ambito domestico e lavorativo, e a quelle rieducative, per reinserire la vittima e il carnefice nel tessuto sociale.
Alcuni studi sul femminicidio, si sono inizialmente concentrati sul passaggio “dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale” (Spinelli, 2008). Probabilmente ora stiamo attraversando una fase ulteriore: in altri termini, è giunto il tempo di occuparsi della messa a punto di strumenti per far fronte alla vittimizzazione secondaria. E questo è un processo di soluzione del problema che chiama in gioco la responsabilità sociale di ogni persona. Processo questo messo in atto dalle diverse esperienze delle tante associazioni e reti associative presenti nel territorio italiano[3]3.
Dalle caratteristiche della relazione vittima-carnefice a quelle della vittimizzazione secondaria
Per poter pensare in maniera più sistematica a strumenti sociali operativi bisogna incrociare le caratteristiche della relazione tra vittima e carnefice nel caso della violenza di genere con i meccanismi della vittimizzazione secondaria.
Gli studi di vittimologia hanno dimostrato da molto tempo il passaggio epistemologico dallo studio del carnefice a quello della vittima, per giungere infine a quello sulla loro relazione (Balloni, 1989; Gulotta, 1976; Gulotta, Vagaggini, 1980; Vezzadini, 2006; 2012; Baldry, 2006). Si tratta di una relazione che appare, tanto ai soggetti che la vivono quanto a chi vi assiste o ne viene a conoscenza, fortemente opaca. La prima difficoltà nella violenza di genere è quella di riconoscere la relazione violenta in quanto tale. Anche nei casi in cui la vittima arrivi a denunciare o anche quando ne riesca a parlare con qualcuno (vittimizzazione primaria), è soprattutto in base alla reazione sociale che riceve dal mondo esterno rispetto a questo suo atto (vittimizzazione secondaria) che può avere effettivamente inizio il processo di uscita dal ciclo della violenza. Ma si tratta di uno dei momenti più ardui, oltre che l’origine e la causa del suo diventare vittima un’altra volta.
Vittima e carnefice hanno quasi sempre un legame d’intimità. Può esserci solo una vittima, la donna, ma difficilmente questa è sola. Molto spesso la relazione violenta ha visto il coinvolgimento dei figli, della sua famiglia di origine, della rete amicale e quella del lavoro, quando la vittima ha un lavoro. I soggetti coinvolti possono essere tanti. In questo senso la violenza di genere implica un lavoro di aiuto sociale che non può essere fatto in un’unica direzione. Non solo gli esperti, ma ogni persona ha bisogno di capire come muoversi e reagire davanti a questo che si configura come un vero e proprio “problema sociale”.
Nella vittimizzazione secondaria, gli stereotipi e i pregiudizi che sono alla base del danno subito durante la vittimizzazione primaria – ovvero nella relazione vittima-carnefice – si acuiscono. La vittima deve fare i conti con la propria reputazione personale e con la frammentazione del sé che il riconoscimento della violenza le impone, si sente spesso profondamente in colpa per quanto accaduto perché questo è il modo in cui il carnefice le ha fatto interiorizzare il controllo totale sul suo corpo, ferendo e mettendo in discussione la propria dignità di essere umano. A ciò si aggiunge che, qualora si tratti di una donna, come lo è sempre stato a dire il vero nella maggior parte dei casi (Véron, 1999: 87-95), la società chiede una “ruolizzazione di genere”: “il modello di donna che si impone come meritevole di protezione (e mai di autonomia) e rispetto (solo in caso di dignità conclamata) è sempre lo stesso. Maternità, cura, amore, devozione” (Peroni, 2012: 127). Il giudizio sociale degli altri, che pesa sempre in ognuno di noi, sulla vittima-donna si trasforma quindi in un macigno. In molti casi, avviene anche il passaggio nell’opinione pubblica dalla vittimizzazione alla criminalizzazione della donna per il solo fatto di aver denunciato o parlato.
La relazione vittima-carnefice e le relazioni che danno luogo al processo di vittimizzazione secondaria presentano almeno due aspetti in comune su cui è opportuno concentrare il focus dell’attenzione per poterli neutralizzare. Il primo aspetto consiste nel configurarsi come relazioni di potere e di dominio opache e invisibili; il secondo, che è ovviamente un corollario del primo, riguarda l’accettazione generalizzata e inconsapevole della prospettiva del carnefice da parte della società. Entrambi gli aspetti comportano sostanzialmente la negazione del problema della violenza di genere. Negarla equivale quindi non solo a non volerla vedere, ma anche, così facendo, a sostenere il pensiero del carnefice senza accorgersene. Questi meccanismi sociali, che archiviano la violenza come un fenomeno privato che va risolto privatamente, contribuiscono in maniera paradossale all’aumento della stessa e al suo radicarsi nella società.
L’approccio individualistico, per quanto ancora prevalente tra le risposte più diffuse, non ha permesso e non permetterà di contenere la violenza di genere. Per contrastare questo fenomeno sono invece indispensabili strumenti sociali operativi, o argomentazioni, per far sì che ogni persona possa cambiare mentalità e riposizionarsi in modo responsabile, contribuendo a limitare la violenza di genere e le sue conseguenze.
Come promuovere un riposizionamento mentale sulla violenza di genere in ogni persona
Nessun decalogo, anche quello più semplice e ben scritto, così come nessuna legge, può essere in grado di ricreare un mondo senza violenza. E ciò che funziona nell’orientare il comportamento di alcune persone non vale per altre. Ma la violenza di genere è un rapporto di potere e di umiliazione di una persona nei confronti di un’altra, è una scelta deliberata di sottomettere, sottovalutare, disprezzare, controllare, colpevolizzare ecc. qualcuno, è il frutto di una sorta di apprendimento culturale e quindi può essere affrontata solo tramite un altro processo di apprendimento collettivo che vada in una direzione relazionale opposta e nell’accettazione delle differenze di genere oltre che delle peculiarità soggettive.
Secondo i più recenti dati Istat (2014; 2015), la maggior parte delle donne vittime di violenza si confida o ne parla con amici e parenti, prima ancora di rivolgersi agli esperti e alle istituzioni a ciò preposte. Questi dati sono confermati anche dalla ricerca condotta nel nostro Ateneo. Rispetto alla domanda “a chi ti sei rivolto/a per ricevere aiuto e sostegno?”, le risposte della popolazione studentesca si sono differenziate tra chi aveva dichiarato nella domanda precedente di aver subito violenza (Q10) e chi invece aveva risposto di non aver mai subito violenza[4]. In particolare, chi ha subito violenza risponde in maniera meno stereotipata e il 41,28% (303 rispondenti) dichiara di essersi rivolto ad un amico/a o a nessuno per il 38,28% (281) (Tab. 1).
Answer Choices |
Responses |
|
|
Ad un amico/un’amica |
41,28% |
|
303 |
A nessuno |
38,28% |
|
281 |
Ad un familiare |
34,88% |
|
256 |
Ad uno psicologo |
14,31% |
|
105 |
Ad un poliziotto, carabiniere, vigile urbano |
10,63% |
|
78 |
Altro (specificare) |
4,90% |
|
36 |
Ad un avvocato |
3,68% |
|
27 |
Ad un religioso |
2,72% |
|
20 |
Ad un assistente sociale |
1,23% |
|
9 |
Al medico di base |
0,95% |
|
7 |
Ad un medico/infermiere dei servizi sanitari |
0,95% |
|
7 |
Tab. 1 – Risposte alla domanda Q11 “Se hai risposto si, a chi ti sei rivolto/a per ricevere aiuto e sostegno?”[5]
Chi ha dichiarato nella domanda Q10, invece, di non ha subito violenza risponde alla stessa domanda mettendo al primo posto un familiare per il 73,77% (1955 rispondenti). Risposta che solleva il dubbio rispetto alla conoscenza del fenomeno da parte di chi non ha subito violenza. Questi ultimi infatti credono nel sostegno dei propri familiari, forse anche perché non avendo una completa conoscenza del fenomeno non sanno che gli autori principali dei reati di violenza (subito e/o assistita) sono gli stessi soggetti a cui loro si riferiscono per ricevere protezione.
Answer Choices |
Responses |
|
|
Ad un familiare |
73,77% |
|
1955 |
Ad un amico/un’amica |
56,11% |
|
1487 |
Ad uno psicologo |
38,45% |
|
1019 |
Ad un religioso |
4,53% |
|
120 |
Al medico di base |
6,60% |
|
175 |
Ad un avvocato |
25,40% |
|
673 |
Ad un assistente sociale |
15,70% |
|
416 |
Ad un medico/infermiere dei servizi sanitari |
11,58% |
|
307 |
Ad un poliziotto, carabiniere, vigile urbano |
59,85% |
|
1586 |
A nessuno |
2,87% |
|
76 |
Altro (specificare) |
1,43% |
|
38 |
Tab. 1 – Risposte alla domanda Q12 “Se hai risposto no o non so, a chi ti rivolgeresti per ricevere aiuto e sostegno?”[6]
I dati riportati sono rappresentativi di una specifica ricerca, ma anche se circoscritta conferma quanto mostrato in letteratura da studi e approfondimenti, ovvero che sul tema vi è un’ampia mancata conoscenza del fenomeno (Cimagalli, 2014). Tutto ciò a riprova della necessità di elaborare un quadro di strumenti formativi contro la violenza di genere, con l’obiettivo di stimolare un vero e proprio riposizionamento mentale soggettivo di ciascuno rispetto al fenomeno.
La violenza e la prevaricazione di genere, come ogni forma di potere, inizia con la seduzione e continua con la manipolazione mentale fino a mortificare completamente ogni facoltà umana della vittima. Ridotta a oggetto, quest’ultima si convince di essere incapace di reagire. Non sa più che cosa fare, quindi crede di non poter far nulla e che addirittura si meriti di essere tratta come un oggetto. Nei testimoni della violenza, siano essi diretti o indiretti – come potrebbe essere qualsiasi persona – la violenza produce questo effetto di svuotamento, di desoggettivazione, di deumanizzazione (Volpato, 2011). La violenza di genere, come ricordato sopra, inoltre, è così sottile e quotidiana – secondo alcuni “perversa” (Hirigoyen, 2000) – da non essere percepita come tale fino a che non diventa insopportabile o mette a repentaglio la vita. Per questo motivo, come è noto, se il contesto relazionale e sociale in cui si viene a trovare la vittima non reagisce adeguatamente nei suoi confronti, le conseguenze possono essere le più gravi e distruttive.
Poiché l’obiettivo non può e non deve essere quello di trasformare la vittima in carnefice né spostare o estendere i danni ad altre persone, né ancora sostituirsi al lavoro sociale svolto dai professionisti del settore, l’argomentazione che sorregge gli strumenti sociali di cui si dispone in quanto esseri umani – che sono strumenti diversi eppure di gran lunga più immediati di quelli giuridici– consiste nel non adottare la prospettiva del carnefice. Non è quindi vero che amici, parenti, colleghi e in generale il contesto sociale non possa fare nulla. Un’argomentazione che vuole produrre un cambiamento di mentalità intende far indossare lenti nuove a ogni persona, strumenti conoscitivi nei quali il linguaggio ha un importante potere trasformativo della realtà. Di seguito ne proponiamo alcune, soprattutto a titolo esemplificativo e per mostrare quanto sia indispensabile lavorare per una presa in carico dell’intera dimensione “sociale” del problema.
Ogni persona può non considerare la violenza di genere un problema privato e/o di origine psicopatologica di chi lo subisce o agisce. Tanto che ci si trovi nella situazione di essere “vicini” alla vittima quanto in generale rispetto al problema (per esempio quando lo si legge sui giornali o lo si guarda alla televisione), ogni persona può considerare la violenza di genere come un problema sociale.
Ogni persona può non giudicare o attribuire colpe ai soggetti coinvolti nel problema, ma credere alla narrazione degli stessi – tanto dalla parte della vittima quanto da quella del carnefice – e guardare al conflitto relazionale. In altri termini, ogni persona può imparare a focalizzare l’attenzione sulla relazione, per esempio, tra moglie e marito, e non solo sulla moglie o sul marito. Ogni persona può evitare di attribuire colpe all’uomo o alla donna, giustificando così più o meno consapevolmente la violenza.
Ogni persona può non confondere il vittimismo con la vittimizzazione (Curti, 2019: 55). “Non fare la vittima” è la frase per eccellenza con cui il carnefice si rivolge alla vittima. Ogni persona può non dire né pensare che si provi piacere – e che sia proprio la donna a farlo – nell’essere umiliati e picchiati. Il che equivale a dire che ogni persona può reagire ascoltando la vittima e non replicare un atteggiamento manipolatorio tipico del carnefice.
Ogni persona può pensare di poter fare qualcosa per la vittima e per il carnefice, imparando a mappare l’esistente in cui vive – perché la violenza di genere è un “problema sociale” e quindi va affrontato con gli “strumenti sociali” a disposizione. Mappare l’esistente consente infatti a ogni persona di comprendere se ci sono altri soggetti nel proprio territorio per aiutare le vittime, scoprendo così che esistono: Centri antiviolenza, Centri per uomini maltrattanti, Sportelli antiviolenza, Associazioni sociali contro la violenza sulle donne, Telefono rosa ecc., ai quali potersi rivolgere. Ogni persona, invece di improvvisarsi nel ruolo di psicologo o di esperto di qualsiasi genere nei confronti della vittima, può chiedere consiglio a chi lo è: ogni persona può chiedere aiuto a chi aiuta (vari soggetti territoriali) per affrontare la violenza di genere.
Ogni persona può cercare di contribuire a sensibilizzare la comunità in cui abita come volontario nelle associazioni contro la violenza presenti nel proprio territorio o creare un’associazione che si occupi di promuovere il rispetto delle differenze, per raccogliere risorse economiche per la formazione di altre persone sul tema, utilizzando modalità diverse dalla televisione, dai giornali e dai social media ecc.
Riferimenti bibliografici
Notas
[1] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul (2011). In www.coe.int/conventionviolence. Ratifica della Convenzione in Italia nel 2013 (Parlamento italiano, 2013).
[2] In merito si dà conto del progetto dell’Ateneo di Perugia dell’apertura di uno sportello antiviolenza in collaborazione con le associazioni che si occupano del sostegno alle donne vittime di violenza e di ogni altra forma di discriminazione di genere. Il progetto, rallentato in questo momento dagli eventi del Covid-19, è in fase di elaborazione degli accordi tra le associazioni e l’Ateneo per definire gli spazi e le modalità di apertura dello sportello. Si tratta di un intervento voluto e realizzato dal delegato e dagli osservatori del gruppo di lavoro rettorale per le “Umane Risorse”.
[4] Un approfondimento meritano le risposte fornite dagli studenti alla domanda: “Ti è mai accaduto di subire violenza di genere?”. Rispondono “si” il 20,85% (722 rispondenti); “no” il 67,57% (2.340) e “non so” l’11,58% (401); sommando il “si” e il “non so” ci troviamo con più del 22% del totale dei rispondenti che di fatto rientrano nel gruppo delle vittime.
[5] Il totale 734, rispetto al numero di rispondenti 722, è dovuto al fatto che la risposta ammetteva più di una scelta (Max 4) quindi molti hanno effettuato una sola scelta, ma alcuni più di una. Le due frequenze maggiori “Amico/a” e “nessuno”, ci confermano da un lato il fidarsi di più di una persona amica e conosciuta (anche i familiari sono stati selezionati per un 34,9%), insieme agli amici arrivano ad essere 559 casi (%). Così come a nessuno per 281 casi (38,3%) sono significativi, rispetto al timore, alla paura di parlarne con qualcuno, per paura di un giudizio, per paura di non essere creduto/a, ecc. Le istituzioni deputate a raccogliere queste testimonianze sono più basse.
[6] In questo caso i rispondenti annullano la risposta “A nessuno”, facendo invece prevalere la famiglia (73,8%), gli amici (56,1%), le forze dell’ordine (59,6%).