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ARTÍCULOS
QUE GÉNERO/TÍPOLOGIA DE UNIVERSIDAD EN ITALIA? RESISTENCIAS Y BUENAS PRÁCTICAS DIDÁCTICAS POR LA IGUALDAD DE GÉNERO
WHAT GENDER/KIND OF UNIVERSITY IN ITALY? EDUCATIONAL PERSISTENCE AND BEST PRACTICES FOR THE GENDER EQUALITY[1]
Fabio Corbisiero
Università degli Studi di Napoli Federico II
Mariella Nocenzi
Sapienza Università di Roma
Resumen: La igualdad de género, como principio consagrado en la Constitución italiana, se ha impuesto con nuevo vigor como objetivo de la educación en todos los ciclos escolares y universitarios en la Agenda 2030, lanzada por las Naciones Unidas en 2015 para el desarrollo sostenible. Recientes análisis del sistema educativo italiano y, en particular, del sistema universitario, han puesto de manifiesto numerosas criticidades, desigualdades y distancias aún amplias respecto a los objetivos de sostenibilidad: equilibrar la presencia de mujeres y hombres en las actividades de investigación, evaluación y selección, en los órganos y comisiones y en las listas de expertos. Es precisamente en las actividades docentes donde parece haber mayor resistencia a incluir el género como factor transversal en los programas de los cursos. Si ya se estudian las consecuencias, las causas suelen identificarse en los factores culturales. A la revisión de las prácticas y los dispositivos le seguirá una exploración de la presencia del género en las experiencias docentes de las universidades italianas. El objetivo es destacar las buenas prácticas y su aplicación en los sistemas educativos internacionales, con herramientas como la Gender Equality in Academia and Research - GEAR de EIGE y de los organismos que regulan las clasificaciones de las áreas de investigación (ERC, UNESCO, etc.), incluyendo el factor de género como autónomo y transversal.
Palabras claves: Género; Educación universitaria; Igualdad de género; Transversalidad; Buenas prácticas.
Abstract: Gender equality, as a principle enshrined in the Italian Constitution, has imposed itself with new vigour as a goal for education in all school and university cycles in the 2030 Agenda, launched by the United Nations in 2015 for a sustainable development. Recent analyses of the Italian education system, and of the university in particular, have revealed many critical issues, inequalities and still wide gaps from the sustainability goals: balancing the presence of women and men in research, evaluation and selection activities, in boards and commissions and in the lists of experts. It is precisely in teaching activities that there seems to be most resistance to including gender as a cross-cutting factor in course programmes. While the consequences are already being studied, the causes are often identified as cultural factors. A review of practices and devices will be followed by an exploration of the presence of gender in the teaching experiences of Italian universities. The aim is to highlight good practices and their application in international educational systems, with tools such as the Gender Equality in Academia and Research - GEAR tool of the EIGE and of bodies that regulate the classifications of research areas (ERC, UNESCO etc), including the gender factor as an autonomous and transversal one.
Keys Words: Gender; Academic education; Gender equality; Transversal; Best practices.
Introduzione
La definizione dell’Obiettivo n. 5 sulla parità di genere fra i diciassette sanciti nel 2015 nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per promuovere uno sviluppo sostenibile, costituisce l’ultima formulazione in ordine di tempo di un principio che ha ricevuto negli ultimi decenni un riconoscimento pressoché universale. Assunto come fondamentale dopo le esperienze belliche mondiali nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948 e, a livello macroregionale europeo, nel 1957 nel Trattato di Roma, nei successivi decenni questo principio è stato ribadito e ulteriormente dettagliato in Carte internazionali e Costituzioni nazionali di tutto il mondo.
Il comune obiettivo è quello di promuovere tutte quelle azioni che possano rimuovere le diseguaglianze a danno del sesso svantaggiato – storicamente quello femminile – favorendo la parità del genere e, quindi, lo sviluppo e il progresso in tutti i settori della vita sociale, politica ed economica.
Fra questi, un peso sempre più rilevante è attribuito al mondo dell’istruzione e della ricerca scientifica almeno per due evidenti ragioni.
La prima è relativa alla funzione che l’istruzione può esercitare a favore di soggetti più vulnerabili, come nel caso specifico le donne, a lungo escluse dalla vita pubblica e da ruoli paritari anche negli spazi familiari. L’istruzione e la formazione costituiscono lo strumento indispensabile per lo sviluppo di quelle che, fra gli altri il Premio Nobel Amartya Sen (2000), definisce capacitazioni, ossia le capacità degli individui di avere coscienza e conoscenza, di perseguire e, infine, di raggiungere i propri obiettivi, dai bisogni primari a quelli più complessi, come la possibilità di partecipare alla vita della comunità e l’avere rispetto di sé. Se ne comprende la valenza ai fini del “dare potere” (empowerment) alle donne per agire esse stesse al fine di riequilibrare relazioni pubbliche e private di sotto-ordinazione nei loro confronti.
La seconda ragione attiene al valore propulsivo della ricerca scientifica ai fini dello sviluppo delle società: lo studio di tutte le discipline sui fatti che riguardano individui e collettività non può prescindere dal considerare tutte le componenti di genere, pena un’analisi parziale e non efficace per l’effettivo miglioramento della condizione umana. Sebbene ciò sembri evidente, la presenza delle donne come ricercatrici e docenti e della dimensione di genere nell’oggetto di studio scientifico registrano ancora sotto-rappresentazioni e inaccettabili bias. La combinazione di questi fenomeni mina il progetto di realizzazione di quello sviluppo che oggi si è sempre più consapevoli debba essere sostenibile per garantire un futuro agli umani, e ciò non escludendo per il fattore di genere una buona loro metà.
Queste considerazioni introducono all’analisi della rappresentazione di genere in un ambito che si propone come strategico, ossia quello della istruzione universitaria.
Nel Par.1 di queste riflessioni si farà luce su queste ultime e la loro reciproca influenza per verificare poi, con il Par. 2, come possano essere interpretati e gestiti i più noti epifenomeni che oggi manifestano una persistente disparità di genere nel mondo della formazione universitaria e della ricerca scientifica.
1-Formazione universitaria e ricerca verso la gender equality
Riprendendo la centralità della funzione dell’istruzione si può porre il punto di partenza nella causa di tipo culturale. Il sesso svantaggiato è stato tale a lungo dopo il suo progressivo inserimento nei percorsi formativi che lo ha portato ad arrivare agli attuali migliori risultati comparati in termini di voti finali e di anni trascorsi nella formazione, fino al livello più alto universitario. Pregiudizi e stereotipi di genere inveterati e accolti acriticamente hanno impedito alle donne di studiare e, poi, esercitare professioni pubbliche ad alto tasso di formazione, rendendo quella femminile non solo una presenza, ma anche una questione poco significativa dal punto di vista scientifico.
Fino agli anni Sessanta quando a livello sociale, grazie anche all’istruzione, una voice femminile non fa breccia nella rappresentazione universitaria e nella ricerca, “su dieci trattati di sociologia tra i più diffusi in America e in Europa, nessuno recava un capitolo, una sezione o anche un paragrafo espressamente intitolato alla condizione o allo status della donna. Alcuni di essi menzionavano fuggevolmente le donne nei capitoli sulla famiglia e i sistemi di parentela. Tre soli includevano il richiamo ‘donna e derivati’ nell’indice analitico” (Gallino, 2004. pp. 254-255).
L’aumento del numero di donne che hanno fatto seguire a promettenti studi una professione di ricerca si è registrato solo quando il movimento femminista si è affermato come fatto politico e come processo di modificazione dell’identità sociale e individuale (Bimbi, 1981). Solo allora si può dire che, con ricercatrici e studiose inserite nelle fasi di produzione del sapere, questo abbia assunto, seppur solo gradualmente, un contenuto gender sensitive.
Se si considera questa seconda ondata del femminismo come il “primo momento politico di critica storica alla famiglia e alla società” (Fontana, 2015, p. 3), si comprende perché il genere sia entrato solo allora nei contenuti della didattica accademica e della ricerca scientifica come categoria di analisi e di interpretazione dei processi sociali, culturali, ma anche economici, medici, biologici. In tal senso, almeno per l’Italia, è molto significativa l’esperienza – e i suoi riflessi didattici – del “Gruppo di Ricerca sulla Famiglia e la Condizione Femminile” (GRIFF), fondato nel 1973 da docenti e ricercatrici della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Milano sotto la guida di Laura Balbo e ancora, dieci anni più tardi, nel 1983, del gruppo di studio della filosofia femminile “Diotima” grazie all’impegno di universitarie dell’Ateneo di Verona e ad esponenti della società civile.
Sebbene l’istituzionalizzazione del genere come oggetto di studio sia stata molto più evidente all’estero con la nascita di team di ricerca e Dipartimenti espressamente dedicati agli Women’s e Gender studies, l’affermazione italiana di questo filone di studi è proseguita più lentamente soprattutto a carico di donne, da ritenersi resilienti perché scegliere questo oggetto di studio ha reso ancora più lenta la loro progressione di carriera e poco apprezzato dall’accademia maschile il loro lavoro. Perché si affermasse un “Centro Studi e Ricerche Donne e Differenze di Genere” – e perché percorsi didattici, attività di formazione e di disseminazione sui Gender Studies apparissero nell’offerta formativa universitaria si è atteso fino al 1995.
Si entra così negli ultimi decenni nei quali inserire il genere oltre che nella ricerca, anche nell’attività didattica, è diventata una delle strategie necessarie per il raggiungimento dell’obiettivo di assicurare l’empowerment culturale di donne “opportunamente” formate, conoscenti, oltre che consapevoli, che il loro inserimento “nei processi decisionali della politica possa essere fondamentale per adottare una visione più ampia e completa della realtà sociale (…) e l’idea che le pari opportunità non siano ‘una cosa da donne’, ma costituiscono una reale prospettiva strategica di rinnovamento dei paesi e, quindi, una crescita dal punto di vista sociale, economico, culturale” (ivi: 9-10).
Fra le attività didattiche che sono state favorite dall’applicazione di questa strategia vanno registrati i primi insegnamenti inseriti nei corsi di laurea a ciclo unico e, poi, dopo la riforma universitaria del 2004, soprattutto magistrale. A questi si sono aggiunti anche gli apposti Corsi “Donne, politica e istituzioni” promossi dal Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, aperti a studentesse e studenti universitari, ma anche a pubblico esterno.
Temi che nel decennio a seguire si sono evoluti, soprattutto seguendo le diverse sensibilità politiche, portando il focus delle pari opportunità verso quello della garanzia dei diritti della persona che ben è rappresentato dalla trasformazione di organismi interni alle organizzazioni lavorative come i Comitati Pari Opportunità (CPO) in Comitati Unici di Garanzia (CUG).
Questa più recente tendenza ha in parte allontanato il nostro Paese dalla tendenza al consolidamento degli insegnamenti sui temi di genere a livello universitario che è ben affermato in gran parte degli Atenei nel mondo, promosso dall’Unione Europea e recentemente approdato nella fase di istituzione di Master e dottorati tematici che contribuiscono alla migliore valutazione di alcuni prestigiosi atenei a livello internazionale.
Non a caso l’Unione Europea definisce come fondamentale il ruolo dell’istruzione nel promuovere la parità di genere, puntando allo sviluppo dei “Gender Studies” come strumento di miglioramento sociale. Il mondo accademico italiano si trova ancora piuttosto impreparato a formare espert* in tal senso, oltre che a redigere e applicare, con la puntualità normativamente prescritta, i protocolli di valutazione dell’impatto di questo tema come i relativi “bilanci di genere”.
A completare lo scenario culturale in cui si sviluppa la didattica sul genere nell’università italiana si aggiunge anche la dimensione della rappresentazione sociale e mediale del valore scientifico e accademico di questi studi. In un Paese dove ancora lo studio e la ricerca universitari conferiscono valore e importanza strategica per gli studi condotti, la scarsa presenza di insegnamenti sui temi di genere, quindi della formazione di espert* e del loro inserimento nei settori produttivi e scientifici, contribuisce a squalificare ancora una volta i temi del genere.
Molte sono le implicazioni di questi processi culturali, di cui uno in particolare insiste sull’offerta didattica delle università italiane con le evidenti conseguenze di cui si tratterà nel Secondo paragrafo.
Se in altri casi, come quello inglese, infatti, la definizione di un curriculum nazionale già a partire dal 1988 ha consentito a studentesse e studenti di seguire corsi di istruzione pressoché analoghi (Arnot, David, Weiner, 1999, p. 199-212), la maggior libertà nella formazione italiana induce percorsi specifici per maschi e femmine: “(…) dove è possibile, i maschi scelgono, di solito, materie e percorsi di carriera/professionali ‘maschili’, mentre le femmine materie e percorsi di carriera/professionali ‘femminili’” (Fontana, 2015, p. 61). Queste scelte formative stereotipate di genere, consolidate nella tendenza statistica accertata anche da banche dati macroregionali come quelle europee (Eurydice, 2018), sono alla base di una collocazione professionale differenziata per genere.
Anche alla luce di queste esperienze dalle implicazioni negative, alcune evidenti revisioni hanno interessato l’offerta formativa accademica degli ultimissimi anni agendo in modo alterno sul divario di genere prodotto da una formazione tradizionalmente stereotipata.
Innanzitutto, i due decenni di progressivo inserimento di ricercatrici e docenti espert* ha portato gli studi di genere ad essere inseriti in tutti i livelli formativi universitari. Si contano, infatti, insegnamenti sul tema sia nei corsi di laurea triennali che magistrali, in master e dottorati, ma anche in corsi di formazione. In questo ultimo caso, le implicazioni positive di un’offerta più ampia si riverberano anche su iscritti che non fanno parte della popolazione studentesca e che possono ottenere attestati di frequenza e/o di valutazione in questi corsi utili per le loro professioni o interessi. Senza sottovalutare la possibilità per gli studenti universitari di avere a disposizione nel percorso universitario una continuità formativa sul tema di genere che è un elemento utile alla definizione di profili di ricerca o professionali sempre più mirati.
Alla presenza del genere in tutti i livelli dell’offerta formativa universitaria fa riscontro una crescente attenzione per i temi di genere anche da parte di discipline che tradizionalmente non li contemplavano, neanche declinando i propri studi secondo il gender factor: si pensi, ad esempio, a nuovi insegnamenti quali la “medicina di genere” o a filoni di studi giuridici dedicati alle diseguaglianze di genere. È questo il caso di temi come la violenza di genere o dei corsi professionalizzanti per espert* del bilancio di genere.
2-Il curriculum gender-sensitive delle università italiane
Come abbiamo appena visto, il crescente interesse per gli studi di genere non è sufficiente ad istituzionalizzare questa dimensione nel contesto accademico italiano. La determinazione di come le Università percepiscono e differiscono tra loro rispetto al genere è molto importante per la cultura scientifica nelle università in quanto determina gli atteggiamenti (tra i futuri professionisti) nei confronti di donne e uomini, differenziandone il trattamento sotto diverse angolazioni (Pollitzer, 2011, p. 101).
Secondo recenti dati MIUR, nel 2015 le donne rappresentano il 37% del corpo docente degli atenei statali (il dato comprende i ricercatori a tempo indeterminato ed RTDA/B, II e I fascia, ma non comprende gli assegnisti), in crescita di 3,8 punti percentuali in dieci anni (erano il 32,2% nel 2005); donne che sono ancora concentrate nei livelli più larghi della piramide accademica e nelle discipline socio-umanistiche, a scapito di quelle tecnico-scientifiche. Questi stessi dati ci chiariscono che mentre si è raggiunta una complessiva parità numerica tra i due generi nei livelli ISCED da 6 a 8 (studenti/esse, laureati/e, dottorandi/e, dottori/esse di ricerca), la diseguaglianza fra donne e uomini – in special modo nei settori STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) - esiste e si aggrava nel corso della carriera. Ciò che preoccupa, nel caso italiano, è la quasi totale mancanza di miglioramento, con percentuali piccolissime di riduzione del divario. Per fare un esempio, tra il 2010 e il 2016, le professoresse ordinarie in materie STEM sono passate dal 16% al 18%, un tasso di incremento che non consentirebbe di raggiungere percentuali di riequilibrio consone alla presenza femminile nei livelli bassi neppure in 50 anni. La carriera scientifica femminile viene descritta con la metafora della leaky pipeline, la tubatura che perde acqua ad ogni giunzione: a ogni successivo livello di carriera fattori di offerta e di domanda contribuiscono alla riduzione del numero di donne presenti e quindi alla riduzione del numero di donne promuovibili ai livelli superiori, creando un processo di svantaggio cumulativo. In particolare, gli anni che sono centrali per lo sviluppo della carriera sono gli stessi che sono centrali per la formazione della famiglia, creando un classico collo di bottiglia nella classe di età in cui si passa da posizioni temporanee a posizioni strutturate. Gli anni in cui ci si aspetta la massima produttività scientifica sono gli anni in cui per motivi biologici è necessario sospendere o rallentare le attività professionali in relazione alla maternità, e la normativa che limita la penalizzazione al rientro dai congedi di maternità è ancora embrionale.
Le dimensioni dell’integrazione del genere all’interno dell’università italiana
La mancata integrazione e lo squilibrio di genere nelle carriere scientifiche hanno diverse dimensioni. Anzitutto è chiara una mancata integrazione, orizzontale e verticale. Non meno importante è poi la variabile territoriale. Per dimensione orizzontale si intende la diversa presenza di uomini e donne nei diversi settori disciplinari; fenomeno di distorsione culturale per cui ancora oggi le donne si concentrano in settori umanistici e gli uomini in settori tecno-scientifici. Per dimensione verticale si intende la differente presenza dei due generi nelle posizioni decisionali e apicali, con una concentrazione delle donne nelle posizioni esecutive e ausiliarie. Per dimensione territoriale intendiamo il fatto che le Università italiane e gli stessi Enti Pubblici di Ricerca, nelle loro diverse articolazioni, operano in contesti territoriali nei quali diversi risultano essere alcuni indicatori di parità di genere, primo fra tutti il tasso di occupazione. Le più attuali evidenze empiriche (AlmaLaurea, 2018) mostrano come, soprattutto in Italia, le donne, pur avendo performance universitarie migliori dei colleghi – in termini sia di durata degli studi (percorsi più lineari) sia di voto di laurea – non solo trovano maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro, ma hanno collocazioni professionali più limitate e percepiscono stipendi più bassi (Sayers, 2005). Non è da trascurare, inoltre, il ruolo giocato dal sistema di socializzazione (gruppi familiari, sistema scolastico, gruppo di pari) nell’influenza sui percorsi formativi e professionali. Ad esempio, gli approcci socioeconomici sottolineano il fatto che le donne più degli uomini siano interessate a scegliere percorsi che consentono l’accesso a posizioni più “family-sensitive” (Scott, 2004): una condizione, quella di conciliare lavoro e famiglia, che è ad oggi maggiormente delegata alle donne.
All’interno della comunità accademica italiana gli squilibri di genere riguardano tutte le componenti delle strutture di didattica e di ricerca (docenti, ricercatori/trici, assegnisti/e, personale tecnico amministrativo, studenti/esse), così come gli stessi Enti di governo dell’Università. La disparità di genere nelle Università italiane è determinata da fattori di domanda, da fattori di offerta e da fattori di funzionamento organizzativo e istituzionale. Per fattori di domanda si intendono la volontà e la disponibilità delle Istituzioni di ricerca ad assumere e promuovere studiose. Si può distinguere tra una domanda formale e informale. Perché vi sia integrazione, è necessario che non vi sia discriminazione formale nei processi di selezione verso i livelli superiori (domanda formale). Ma è anche necessario che ambedue i generi siano inclusi nelle reti di accoglienza e relazione attraverso cui scorre l’informazione professionale (domanda informale).
Definendo un curriculum come un processo di costruzione sociale che coinvolge più livelli e più attori, l’analisi che proponiamo in questa seconda parte del Capitolo ha come obiettivo quello di illustrare qual è la tipologia dei corsi formativi universitari e la loro distribuzione da Nord a Sud dell’Italia. A tal fine, utilizzeremo, in maniera aggregata e rappresentata attraverso il grafico 1, i dati raccolti nel corso di una ricerca condotta dalla Sezione AIS Studi di Genere il cui obiettivo principale è stato quello di analizzare la presenza degli studi di genere nella formazione universitaria negli ultimi cinque anni.
La nostra analisi parte anzitutto da due fattori storico-istituzionali che segnano il destino curriculare degli studi di genere nelle Università italiane. Il primo riguarda la presenza di questo filone di studi all’interno dei settori scientifico-disciplinari in cui vengono istituzionalmente organizzati i saperi considerati “mainstream” e giuridicamente riconosciuti all’interno della comunità accademica italiana. Quelli che genericamente l’università italiana definisce come “Studi di genere” non vengono rubricati come uno specifico e distinto settore disciplinare; soltanto in 4 su 165 potenziali corsi di laurea si fa riferimento al genere come legittimo oggetto di studio, considerando l’area delle scienze umane e politico-sociali.[2] Il secondo fattore riguarda poi la formazione degli studenti e, in particolare, la “classi di corsi di studio”[3]: escludendo le sole classi di corso triennali e magistrali che ricadono in ambito più squisitamente tecnico o scientifico-naturalistico, nessuna classe di corso è definita in termini di genere, mentre lo sviluppo di un filone in questa prospettiva è richiamata tra gli obiettivi formativi qualificanti di sole 6 classi di laurea triennale su 26 e in 11 di laurea magistrale su 52 (AA.VV., 2014).
Ma quali sono le ragioni del mancato riconoscimento da parte delle università alla diffusione degli studi di genere? Anzitutto possiamo richiamare ragioni storiche. Da un lato alcuni movimenti femministi degli anni Settanta non vedevano di buon occhio i rapporti con l’establishment accademico e la cultura maschile dominante, preferendo mantenere un certo livello di autonomia; dall’altro l’ambiente universitario italiano era particolarmente conservatore e ostile per aprirsi verso settori di ricerca come i “Women’s studies” che rappresentavano una rottura con la didattica tradizionale. Il sistema accademico italiano, inoltre, prima della riforma del 1999, era notevolmente rigido nella regolazione dei piani di studio e l’introduzione di nuovi corsi presupponeva l’approvazione del Senato accademico. In modo analogo anche gli studi LGBT o “Cultural Studies” rivendicano la possibilità di percorsi didattici e insegnamenti specifici sull’universo delle identità sessuali; se alcune strade in tal senso sono in apparenza sgombre da impedimenti culturali, politici o burocratici (facciamo riferimento alla istituzionalizzazione di laboratori, centri o aree di ricerca universitaria dedicata agli studi LGBT), parlare di «omosessualità» lungo i percorsi didattici rimane in ogni modo una questione non del tutto ovvia e dai significati tutt’altro che condivisi e inequivocabili (Corbisiero, 2013).
Ad oggi ancora non esistono Dipartimenti di Studi di Genere e/o delle identità sessuali, ma solo centri di ricerca che il grafico 1 mostra nella sua distribuzione territoriale con un peso percentuale maggiore al Nord (11%).[4] I master e i dottorati disponibili si contano a fatica; i dati che riportiamo ci indicano che il 54% di questi corsi curricolari è concentrato al Sud, mentre il 20% al Centro e soltanto il 17% al Nord. L’area aggregata della “formazione” che comprende laboratori, tirocini e convegni raccoglie la maggiore percentualizzazione delle attività accademiche che trattano i temi del genere. Si tratta come nel caso del Corso in “Design della comunicazione e culture di genere” del Politecnico di Milano di insegnamenti curricolari che combinano il tema del genere con altre dimensioni sociologiche come la comunicazione; oppure di corsi di formazione o laboratori realizzati sul tema del genere per integrare il curriculum di insegnamenti che, almeno nella denominazione, escludono gli studi di genere. Una discussione a parte merita l’enorme messe di convegni che nei decenni l’università italiana ha registrato sulle questioni di genere proprio come antidoto all’impossibilità di istituzionalizzare questo tipo di studi. In pratica, si tratta di un ennesimo escamotage, attraverso l’inserimento all’interno di corsi “non sospetti” riconosciuti dall’ateneo, di introdurre gli studi di genere nelle Università italiane. Sotto questo punto è fondamentale il legame del mondo accademico con le numerose associazioni nazionali e internazionali di natura accademico-scientifica che si occupano di genere e che vedono la doppia presenza fra queste organizzazioni di espert* di genere.
Così l’Università italiana è gradualmente entrata a far parte di programmi scientifici europei per lo sviluppo degli studi di genere come “ATHENA” (Advanced Thematic Network for Activities in Women’s Studies in Europe), “RN33 – Women’s and Gender Studies” della European Sociological Association o anche, a livello nazionale, la sezione AIS “Studi di genere”. Tutti gruppi di espert* che ricoprono una posizione sia all’interno dell’Università sia dentro questi programmi.
Pur non essendo in possesso di dati specifici e completi che ci descrivano minuziosamente le distribuzioni presentate possiamo avanzare alcune congetture interpretative. Prendendo in considerazione i curricula definiti dalle classi di corso di studio appare in tutta la sua evidenza la discrasia rispetto alla definizione formale dei settori scientifico-disciplinari oltre all’approccio stereotipato con cui il filone degli studi di genere viene trattato; sotto questa angolazione critica non esiste una corrispondenza tra le lauree triennali e quelle magistrali. D’altra parte, a fronte di condizioni e difficoltà comuni a tutte le Università, vale la pena di sottolineare un dato di spaesamento e di incertezza che, di fatto, ci impedisce di poter parlare di “buone pratiche” della didattica: nell’Italia accademica la fisionomia degli studi di genere è tutt’altro che definita da buone prassi. Piuttosto parliamo di buona volontà e perseveranza di (poche) Università e (alcuni) studios* nel portare avanti gli studi di genere all’interno dei curricula didattici.
Riflessioni conclusive
Sebbene sia opportuno distinguere il piano della formazione universitaria sui temi del genere da quello delle analisi biografiche, è senz’altro possibile sostenere che la scarsa attenzione dell’Università italiana al tema del genere e delle identità sessuali e la persistente routine della comunità accademica a sostenere la maschilità sono fenomeni che si rinforzano vicendevolmente e sono in qualche modo prodotti di uno stesso ordine simbolico e culturale ancora basato sull’asimmetria dei generi.
Eventuali indicazioni per atti di indirizzo rivolti alla CRUI, al CUN, alle Università e agli Enti pubblici di ricerca riguardanti le specificità di genere dovrebbero andare nel senso di un riconoscimento della dignità scientifica del tema del genere ovunque possibile introducendolo nella declaratoria che definisce ciascun raggruppamento disciplinare, dando piena cittadinanza nel proprio settore concorsuale a quei lavori che interrogano il genere in relazione o nei contenuti di ciascuna disciplina. Relativamente alla governance delle Università, chiedere che gli Atenei applichino estensivamente (a tutti gli organi e strutture) il principio, previsto dall’art. 2, comma 1, della legge n. 240/2010, della parità di genere nella composizione del Consiglio d’amministrazione e dotare tutte le Università dello strumento del “bilancio di genere” al fine di monitorare il proprio progresso in termini di pari opportunità di genere, come raccomandato dalla CRUI nel documento approvato il 19/1/2017.
Riferimenti bibliografici
Notas
[1] Il progetto scientifico è frutto del lavoro condiviso dei due autor* che hanno scritto a quattro mani Introduzione e Riflessioni conclusive, mentre il Par. 1 è riferibile alla stesura di Mariella Nocenzi e il Par. 2 a quella di Fabio Corbisiero.
[2] Consideriamo qui aree disciplinari teoricamente legittimate ad occuparsi di temi di genere tutte quelle rientranti nei settori: 10 (Scienze dell’Antichità, Filologico-Letterarie e Storico-Artistiche); 11 (Scienze Storiche, Filosofiche, Pedagogiche e Psicologiche); 12 (Scienze Giuridiche); 13 (Scienze Economiche e Statistiche); 14 (Scienze Politiche e Sociali).
[3] All’interno dell’ordinamento universitario italiano le classi raggruppamenti di corsi di studio che condividono obiettivi formativi. I corsi di laurea dello stesso livello che hanno obiettivi e contenuti formativi omogenei e materie condivise sono raggruppati in “classi di laurea” o “classi di appartenenza”. Le classi di laurea di primo livello, contrassegnate dalla lettera “L” (per esempio, L-10 Lettere, L-13 Scienze biologiche, ecc.), sono poco meno di cinquanta; un centinaio, invece, le classi di laurea magistrali (e a ciclo unico), indicati con la sigla “LM”, per esempio, LM-40 Sociologia, LM-42 Medicina Veterinaria, ecc.). Nel sistema dell’autonomia, i Decreti Ministeriali 4 agosto del 2000 e 28 novembre del 2000 fissano il quadro generale per ciascuna classe di corso e il numero minimo di CFU da acquisire nelle discipline di base e caratterizzanti, rinviando ai singoli Atenei e ai dipartimenti/facoltà il compito di articolare l’offerta formativa.
[4] Citiamo qui, per il Nord, il “Centro di ricerca GENDERS - Gender & Equality in Research and Science” (Università degli Studi di Milano) che è il primo centro di ricerca universitario in Italia focalizzato sul tema dell’uguaglianza di genere nelle carriere scientifiche e sulla genderizzazione dei contenuti e dei metodi della ricerca scientifica; per il Sud “Osservatorio LGBT” (Università Federico II di Napoli), il primo centro di ricerca universitario italiano ad occuparsi specificamente e in maniera interdisciplinare di studi e ricerche sulla popolazione LGBT.